Vorrei iniziare riprendendo le riflessioni di Alice sulla precedente puntata.
Premessa: secondo me è stato un episodio straordinario, il migliore fin qui di una serie che ha tutte le carte per essere nel meglio di quest’anno, e che credo ci mostrerà puntate ancora più spettacolari.
Uno degli elementi che fanno la forza di questo episodio, è il modo magistrale in cui ci fa toccare con mano il clima di paranoia che vivono gli americani/i loro nemici, mostrandoci situazioni che sono degli anni ’80 ma potrebbero essere gli anni 2000. Un clima in cui ciascuno si deve guardare intorno perché non sa con chi sta parlando, in cui chiunque, davvero chiunque, è un potenziale nemico o una possibile spia. Lo scenario di normalità in cui si svolge l’azione rende il tutto drammaticamente reale. Le scene all’aperto sono soffocanti e claustrofobiche.
Come un serpente che si morde la coda l’episodio spiega, ma nel frattempo alimenta la paura del sospetto in cui la società americana si è ritrovata dopo l’11 settembre. Ci fa capire, senza essere didascalico, perché in vari momenti della storia USA i diritti umani abbiano lasciato il passo a una legislazione securitaria e autoritaria, senza per questo giustificarla.
The Americans riesce a farlo intrecciando i classici elementi di una spy story, ad un approccio quasi da documentario alle persone in carne,ossa e sentimenti, che quell’azione la creano.
E’ così, mentre sale la tensione e l’adrenalina per capire se sarà l’FBI o il KGB a mettere le mani su Joyce, sprofondiamo nell’abisso di vite che non ci sono mai apparse così misere e insostenibili.
Se fin qui le vite erano doppie, stavolta tocchiamo con mano che sono addirittura triple: la vera natura di agenti o collaboratori, la copertura, e quell’angolo buio in cui poter esprimere i propri veri sentimenti. Dove finisca la realtà e inizi la finzione, è arduo da capire persino per i protagonisti.
Elizabeth di sicuro fatica a comprenderlo: una finta famiglia con Philip che diventa vera, un ruolo da spia dove non sa e non può essere spietata come dovrebbe, un uomo di fronte a cui riesce ad essere finalmente se stessa. Con Gregory -passionale anche nel suo ruolo pericoloso e tanto diverso dallo sguardo freddo di Philip- Elizabeth è disarmata, finalmente senza difese, grazie ad una magistrale Keri Russel che non mi è mai apparsa così bella e luminosa.
Philip, Elizabeth, Gregory, Robert: pedine in un gioco più grande, e in continua lotta per ritagliarsi un pezzo di vita che sia reale e soltanto loro. Vite dove la felicità non è prevista, se non per pochi istanti, se non a caro prezzo.
Per Philip non può essere reale nemmeno una colazione al bar con la figlia,e in fondo il rapporto con Elizabeth, è l’unica cosa che si avvicina al vero che può avere. Nello scontro con Gregory appare disperato, nel terrore di perdere tutto, quando pronuncia quella frase: “ma tu ce l’hai una famiglia?” unico appiglio da usare per contrapporsi a Gregory ed al legame che lui ha saputo creare con Elizabeth.
E Gregory perché si è fatto reclutare? Soldi, amore, ideali? Forse tutti insieme. Anche la sua figura aiuta a decostruire il clichè delle spie che siamo stati abituati a vedere fin qui: in The Americans l’ambiguità è innanzitutto uno stato d’animo con cui i personaggi fanno i conti in prima persona. I confini tra i pezzi delle loro vite non sono mai netti, ma evanescenti e sfuocati.
Ogni azione, ogni frase, ogni gesto dei nostri protagonisti non ha quasi mai una spiegazione univoca e chiara. Dovere, Ruolo, sentimenti, sopravvivenza umana si mescolano, si sovrappongono diventando quasi indistinguibili di fronte a scelte che non possono non essere laceranti.
Non potremo mai avere la certezza che Robert voglia davvero salvare la moglie, quando le dice di mettere quell’annuncio. Forse, si, forse nemmeno lui lo sapeva. Forse la certezza della fine che avrebbe fatto si è mescolata con la speranza che Philip, il suo migliore amico, avrebbe capito e l’avrebbe salvata. Robert per ritagliarsi un proprio spazio di vita ha cercato e sposato una donna, ha fatto un figlio con lei e l’ha coinvolta sapendo di metterla in pericolo, ancora in un triplo gioco: padre/marito, finto spacciatore, vera spia.
Questa puntata ci immerge ancora di più nel mondo dei personaggi, ripetendo un meccanismo che ho trovato estremamente soddisfacente. Prima si crea una domanda nello spettatore (chi ha messo l’annuncio? Come si sono conosciuti Elizabeth e Gregory? Cosa sa davvero Joyce? E cosi via…) per poi introdurre la risposta. Prima si alimenta la curiosità, poi si approfondisce. Lo scontro più grande tra le superpotenze parte dal dettaglio delle persone.
In fondo, le domande che pone The Americans riguardano un po’ tutti: quante delle nostre relazioni sono fittizie? Quanti dei nostri atteggiamenti sono una copertura? Che cosa determina davvero le nostre scelte?
Un senso di profonda inquietudine attraversa tutto l’episodio, fino ad arrivare allo splendido finale con un impatto emotivo devastante. Per quanto già scritto e scontato, mi ha lasciato incapace di dire una parola per parecchio tempo. Ma è quando provo questa sensazione che sono soddisfatto, quella che fa la differenza tra un passatempo e una serie in cui sono già immerso fino in fondo.
The Americans lo fa senza effetti speciali, ma usando a grandi livelli la scrittura, i personaggi, il ritmo e la fotografia mai eccessivi e con sbavature trascurabili.
Due piccole note a margine.
- L’unica pecca della puntata è proprio Gregory. Il collaborazionista dei russi non può che essere un idealista nero abbordato in università ad una marcia per Martin Luther King. La figura funziona. È perfettamente calata nel contesto e nel meccanismo, ma un po’ di impegno in più ad evitare gli stereotipi lo si poteva mettere.
- In un paio di situazioni Stan si mostra piuttosto insofferente verso gli afroamericani, fino ad esclamare, al termine dell’inseguimento fallito: “cosa importa a uno del quartiere se tra loro c’è una spia del KGB?”. Che il suo passato di infiltrato tra i suprematisti bianchi abbia lasciato qualche tossina?
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